All’alba del 22 novembre i tarantini si svegliano ascoltando il "Complesso Bandistico Lemma città di Taranto" che ogni anno da il "La" alla festa di Santa Cecilia (e al periodo natalizio), perpetuando così un’antica tradizione che si dice nasca dall’iniziativa del gruppo bandistico locale che molti anni fa decise di uscire all’alba del 22 novembre per onorare la Santa protettrice dei musicisti.

La banda percorre le vie della città suonando le famose “pastorali” scritte appositamente da maestri tarantini come Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, Domenico Colucci, Carlo Carducci e altri musicisti, ispirati dal fascino di tradizioni ben più antiche che trovano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d'Abruzzo, che durante la transumanza scendevano nella nostra terra, con le loro greggi, muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse - suonavano per i vicoli della città, durante la loro questua itinerante, regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo.

Il cibo che i tarantini donavano ai pastori era un prodotto povero e semplice, come loro, ma allo stesso tempo gustoso e nutriente. Erano delle frittelle di pasta di pane, le famose pettole

Un’antica leggenda narra che:

<< Il giorno di Santa Cecilia, una donna si alzò come di consueto, per preparare l'impasto per il pane. Mentre l'impasto lievitava sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide i zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia scese per strada e si mise a seguire i zampognari per i vicoli della città.

 

Quando tornò a casa si accorse che l'impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione.

Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell'olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell'olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: "Mà, come si chiaman'?"- e lei pensando che somigliavano alla focaccia ( in dialetto detta "pitta") rispose: "pettel'" (ossia piccole focacce).

Non ancora soddisfatti i figli chiesero: "E 'cce sont?" - e lei vedendo che erano molto soffici rispose: "l' cuscin' du Bambinell" (i guanciali di Gesù Bambino).

Quando finì di friggere tutto l'impasto, scese per strada coi suoi bambini, felici e satolli per offrire le pettole ai zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo.>>

La realtà invece ci dice che:

le donne, per preparare le pettole, si procuravano “u luat” (piccolo panetto di pasta cresciuta, usata come lievito) - si alzavano verso le due di notte per , "trumbà” (impastare) la pasta, operazione che richiedeva tempo e forza di braccia, perché di solito le pettole costituivano il pranzo e la cena e le dosi superavano di molto il chilo di farina, dato che dovevano sfamare famiglie numerose “cu na morr’ di figghije” ( con tanti figli).

Per questo l’impasto si preparava “int’ u limm’" (grande coppa in terracotta smaltata all'interno). Finito di impastare, si lasciava lievitare la pasta coprendo il limmu con una “manta di lana” (una coperta) in un luogo caldo, di solito vicino al camino o vicino “a fracassè” (antica cucina a legna, con caldaia), comunque al riparo da spifferi e correnti d’aria che ne rallenterebbero la fase di lievitazione, determinante per la riuscita delle pettole.

Di stretta competenza di nonne, mamme e zie, la preparazione delle pettole, rende l’attesa della festa un momento di interessata partecipazione e avvicendamento ai fornelli.

Oggi le operazioni dei preparativi sono state semplificate dalle comodità della vita moderna, ma gli ingredienti base sono rimasti gli stessi:

500 gr di farina 00 (oppure),
un cubetto di lievito di birra ,
un cucchiaino da caffè di sale,
acqua q.b.
olio d’oliva per friggere.

Per l’impasto si procede in questo modo:

Riscaldare l'acqua, in una coppa setacciare la farina, a centro versare un po’ d'acqua e il sale, unire il lievito di birra e scioglierlo bene, poi cominciare ad impastare ben bene tutta la farina, aggiungendo acqua, e lavorando energicamente sino ad ottenere un impasto liscio, omogeneo, appiccicoso, di consistenza quasi cremosa.

Coprire e lasciare a riposare l'impasto per circa due ore (a volte basta anche meno), l'impasto è pronto quando è almeno raddoppiato di volume, e sulla sua superficie si sono formate delle bolle d’aria (aria incorporata durante la lavorazione dell’impasto).

Quando l'impasto è lievitato mettere sul fuoco una pentola alta con abbondante olio di oliva (le pettole devono friggere in olio profondo, altrimenti rimangono crude dentro).

Quando l’olio comincia a fumare, con le mani bagnate in acqua tiepida (per lavorare l'impasto senza appiccicarsi), prendere un pò di pasta, stringere la mano a pugno e formare una pallina da staccare tra pollice e indice e farla cadere nell'olio.

Dato che l'operazione richiede una manualità da esperti, meglio aiutarsi con un cucchiaio!

Appena nell'olio la pasta si gonfia. Quando sono dorate potete scolarle e.... Buon appetito!

Le pettole sono molto facili da fare. Rifacendoci alla tradizione l'impasto è molto semplice e simile a quello del pane, ma ci sono piccoli segreti.

Mia nonna nell'impasto usava della semola rimacinata , per cui le dosi precedenti diventano:

300 gr di farina 00 e 200 gr di semola rimacinata (in tutto sempre 500gr di farina) -

per impastare usava dell'acqua tiepida, per agevolare la lievitazione.

La morbidezza delle pettole deve essere ottenuta da:

- una lavorazione energica, sollevando e sbattendo l’impasto con le mani più volte dal fondo della ciotola. In questo modo si riesce ad incorporare più aria possibile, così da avere poi pettole soffici.

 

- un impasto omogeneo e fluido. (Attenzione non liquido)

- una lievitazione lenta e lunga.

Le pettole sono buone al naturale, ma si possono gustare anche in versione salata e dolce.

La versione salata prevede la loro farcitura: prima di friggerle, inserendo nella pallina di pasta,

di pezzi di baccalà fritto, filetti di acciughe salate, cozze crude sgocciolate, pezzetti di parmigiano (le mie preferite), pezzi di cavolo lesso, olive, prosciutto e con tutto ciò che ci suggerisce la nostra golosità e la nostra fantasia mangereccia.....

Per gustarle dolci, basterà passarle nello zucchero, nel miele o nel vincotto.

Una versione moderna, è quella di spalmarci dentro della nutella, chiuderle e cospargerle di zucchero.....paradisiache – anzi sò tropp’ cannarut’(sono golosissime) e p’ l’ cannarut (per i golosi).

L’importante è mangiarle caldissime e possibilmente davanti ai fornelli e alla pentola sfrigolante,

bruciandosi le dita e scottandosi la lingua, sennò che gusto c’è?!

La forza di questa tradizione fa sì che - nonostante il delirio consumistico della vita moderna – il perpetuarsi di queste usanze, rende sempre vivo il legame col passato, e le festività Natalizie più ricche di significato…

….Da tempi lontani i tarantini il 22 novembre, si svegliano a notte fonda per preparare le pettole da mangiare all’alba ancora bollenti, chiudendo gli occhi e ascoltando le note della banda… per colmare il cuore e rinfrancare lo spirito…

Piccoli gesti…grandi ricordi ...ed è già festa.

(C) TarantoNostra.com - Carmela