Ci sono contrasti politici e incompatibilità caratteriali che nessuno riesce a comporre. Il Salento ha avuto per decenni in Adriana una lady di ferro non solo per il favore popolare ma soprattutto per la sua autentica vocazione politica che le ha fatto trascurare anche la carriera di docente universitaria a cui era destinata. Poi è cresciuto Raffaele. Figlio d’arte. Erede di larghi strati di quella Dc che ebbe nel padre Salvatore uno dei più popolari esponenti, assurto alla presidenza della Regione, stroncato ancor giovane in una tragica notte di fine agosto, quando il figlio non aveva ancora vent’anni. Hanno cercato di coabitare nello stesso partito Adriana e Raffaele. Non ci sono riusciti. Sono espressione di due culture diverse. E hanno una diversa concezione della politica e del potere. Fitto non può dividere con nessuno l’e gemonia nella sua terra salentina. Ha bisogno di circondarsi non di fedeli ma di fedelissimi. Impossibile immaginarlo dialogare con Adriana presidente regionale, coniugare con lei l’ardua sintassi distributiva nelle amate terre di comune appartenenza. A malincuore Berlusconi dovette rassegnarsi. 

E la battaglia di Rocco è stata coraggiosa contro un mago delle piazze come Nichi. Il Cavaliere ci ha pensato un paio di giorni. Assalito anche di notte dai suoi e dagli assatanati leghisti che non si rassegnano a mollare senza contropartite il ministero di Zaia eletto governatore del Veneto. Con l’ex Galan che si aspetta un compenso ministeriale dopo la brusca deposizione dal trono. Un bel rompicapo. Ma alla fine il premier ha tagliato il nodo: squadra che vince non si cambia, neanche quando qualcuno perde. E Fitto torna in sella. Di lui si è subito detto che ne usciva con onore dimettendosi. E con onore rientra. Ma non è la “protesi” del Capo, come vorrebbe la storica definizione partorita anni fa alla Fiera del Levante. 

{affiliatetextads 1,,_plugin}Ha ragione la collega Tulanti: Fitto non è protesi di nessuno. Non si riconosce nemmeno nel suo più illustre concittadino, Aldo Moro, di cui a Maglie rimane quel discusso monumento nella piazzetta dietro il municipio. Ma ora il reintegrato ministro delle regioni è atteso a una prova difficile, decisiva. Anzi a una sfida. Per quanto si giri attorno al problema del “nucleare dove”, una cosa pare scontata, segretamente implicita a livello politico: la Puglia è l’Agnese destinata al cippo. Naturalmente tutti lo negano durante la campagna elettorale. È stata una gara alla doppiezza. Anche per chi si dice da sempre favorevole al nucleare, come Zaia. Che però proclama: “Mai nel Veneto”. E il neogovernatore Cota: “Mai in Piemonte”. “In Sardegna non c’è posto per il nucleare”, taglia corto Cappellacci, amico del Cavaliere. “Nel Lazio non ne abbiamo bisogno”, avverte la Polverini. E l’abruzzese Chiodi s’allinea: “Sono favorevole ma non in Abruzzo”. Qui si parrà la sua nobilitate, pensano i Pugliesi aspettando il ministro Fitto a questa grande prova. Pare però che il governo abbia escogitato un piano diabolico per mettere tutti in riga: militarizzare la zona prescelta e mettere la mordacchia alle velleità dei cacicchi. “E noi affronteremo anche i carri armati con tutto il nostro popolo”, tuona Nichi Vendola, quasi evocando una rivolta del tipo piazza Tienanmen davanti al mausoleo di Mao. Come disse quel tale: “Voi suonate le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane”.

Giuseppe Giacovazzo - Lagazzettadelmezzogiorno.it