{affiliatetextads 1,,_plugin}A Taranto, ognuno dei duecentodiecimila abitanti, ogni anno, respira 2,7 tonnellate di ossido di carbonio e 57,7 tonnellate di anidride carbonica. Gli ultimi dati stimati dall’Ines, l’Inventario nazionale delle emissioni e loro sorgenti, sono spietati. Taranto è come la cinese Linfen, chiamata «Toxic Linfen», e la romena Copsa Miça, le città più inquinate del mondo per le emissioni industriali. Ma a Taranto c’è qualcosa di più subdolo.
A Taranto c’è la diossina. Qui si produce il 92 per cento della diossina italiana e l’8,8 percento di quella europea. Qui, negli ultimi dieci anni, i tumori sono aumentati del trenta per cento. La diossina si accumula nel tempo e a Taranto ce n’è per 9 chili, il triplo di Seveso, la città alle porte di Milano contaminata dalla fuga di una nube tossica dallo stabilimento Icmesa, il 10 luglio 1976. (…)

I dati Ines spaventano. Ma i limiti legali di emissione della diossina terrorizzano. E’ questo il cuore del problema, i limiti di legge. Il limite europeo è di 0,4 nanogrammi (un miliardesimo di grammo) per metro cubo. Quello italiano, di 100 nanogrammi. (…) Il siderurgico di Taranto produce e vende acciaio come non mai, soprattutto a due giganti come la Cina e l’India, e le stime dicono che la produzione crescerà ancora. Nel 2007, l’Ilva ha realizzato utili per 878 milioni, 182 milioni in più dell’anno prima e il doppio del 2005.(…) L’Europa è dal 1996 che ha fissato il limite a 0,4 nanogrammi. L’Inghilterra, per esempio, si è adeguata. E la Germania ha fatto ancora meglio: 0,1 nanogrammi, lo stesso limite previsto per gli inceneritori. In Italia, invece, in tutti questi anni si è andati avanti a colpi di “atti d’intesa”, che sono come le chiacchiere, non servono a nulla. E infatti mai nulla hanno prodotto. (…) I risultati sono davvero scarsi. La “campagna di ambientalizzazione”, per esempio, è andata a rilento e l’Ilva ha fatto di tutto per concluderla nel 2014, proprio quando scadrà il Protocollo di Aarhus, recepito anche dall’Italia, che impone ai Paesi membri di adottare “le migliori tecnologie disponibili” per portare le emissioni a 0,4-0,2 nanogrammi. Scaduto l’accordo di Aarhus, scadrebbe anche l’obbligo di dotarsi delle migliori tecnologie. E si ricomincerebbe da capo. Come nel gioco dell’oca.

KAPUTT
La giornata è piuttosto fredda e il cielo è coperto, ma questa volta le nuvole sono naturali. Arrivano in fila. Due volanti e due furgoni della polizia, due camion per il trasporto del bestiame, le auto dei veterinari e degli ispettori sanitari, quelle dei giornalisti. Sembra un corteo funebre. E in effetti lo è, perché ciò che accadrà dopo,il rastrellamento di pecore e agnelli e la loro deportazione nei mattatoi più vicini, evocherà scenari di morte. I più svelti sono i cineoperatori. Microfoni e telecamere per documentare tutto di questa giornata nera, per fissare i volti di Vincenzo e Vittorio Fornaro e per ascoltare il loro papà Angelo, che invece nasconde il volto e gli occhi rossi dietro le lenti scure di un vecchio Ray Ban. Il clima è teso, nervoso, pesante. (…) Sul muro di uno dei locali della masseria è stato affisso un lenzuolo bianco con una scritta di vernice rossa spruzzata da una bomboletta spray. Dice: “Vergogna! Punite le vittime e salvate i carnefici”. Le telecamere inquadrano il lenzuolo. L’ispettore sanitario e un poliziotto in borghese chiedono di sapere chi lo ha messo lì. “Lo abbiamo messo noi – rispondono i Fornaro -, per ribadire il concetto che a pagare sono le vittime, mentre le industrie che hanno avvelenato pascoli e bestie continuano a lavorare indisturbate”. E’ vero, la diossina è dentro alle carni di queste pecore. Ma alle pecore, attraverso la contaminazione dell’erba, l’ha regalata l’industria. Il 98 per cento della diossina, infatti, si assorbe per via alimentare, soltanto il due per cento per via respiratoria.(…) Le pecore, le capre e gli agnelli hanno capito che questa è una giornata particolare. Tremano di paura. Non è la solita selezione periodica dei capi da macellare. Oggi li stanno portando via tutti. Aperto l’ovile, le pecore vengono separate dagli agnelli. Ma nella masseria si sente un unico belato. Sono molti gli animali che non vogliono salire sui camion, devono afferrarli per la lana, all’altezza del collo, e trascinarli dentro. Non è vero, mi dico, ciò che pensiamo delle pecore. Non bisogna credere a quel che si dice di loro, e cioè che basta che una pecora vada in una direzione affinché tutte le altre la seguano senza un motivo. Questo è un luogo comune, che diffama le pecore e ne intacca la reputazione. Invece queste pecore oppongono una dignitosa resistenza agli uomini che le stanno rastrellando.

IL LATTE DI ROSALINDA
“Che culo, noi in Calabria abbiamo la ‘ndrangheta. Voi invece a Taranto avete l’Ilva”. Adesso lo racconta ridendo e facendo ridere chi la ascolta. Ma quando gli amici, i parenti e la gente di Rocca Imperiale, il suo paese, in provincia di Cosenza, la prendevano in giro con questa battuta, Rosalinda Scimè ci rimaneva male. Non capiva perché lei, calabrese, avesse sbagliato a scegliere di vivere a Taranto. Prima di lei, ci erano venuti a vivere sua madre e suo padre, che faceva il ferroviere e a causa del suo lavoro era stato trasferito in Puglia. (…) I genitori di Rosalinda si ritenevano fortunati per non essere finiti a Torino, a Milano o in Germania, dove erano dovuti emigrare tanti altri loro conterranei, e benedicevano la grande industria che permetteva loro di vivere al Sud come fossero operai del Nord. Erano a due ore di macchina dal paese in cui erano nati, dove potevano ritornare anche ogni fine settimana, ma godevano di opportunità e vantaggi che al paese non avrebbero mai avuto. La casa popolare nel quartiere Tamburi, per esempio. Ottenerla, era stato quasi un privilegio. (…) Oggi, al quartiere Tamburi, nella stessa palazzina, abita anche Rosalinda. Con il marito Paolo Russo e i loro due figli, Sara e Ivan. Rosalinda e Paolo sono al secondo piano. Al terzo, c’è la mamma di Rosalinda, ammalata di leucemia. E nella stessa palazzina, in quelle vicine, in tutto il quartiere, c’è molta gente che si sta spegnendo così, specialmente bambini.
“Non avevamo mai vissuto direttamente il dramma della leucemia”, dicono Paolo e Rosalinda. Sono giovani, trentadue anni lui e ventinove lei. Adesso però sono impauriti da quello che accade intorno a loro. (…) Dieci mesi prima, mentre allattava Ivan, Rosalinda pensava che fosse toccato a lei e al suo bambino.
Il medico di famiglia le aveva chiesto di far analizzare il suo latte, spiegandole che c’era il fondato sospetto che potesse risultare contaminato da diossina e policlorobifenili. Lei, che è una donna intelligente e una mamma premurosa, accettò. Ma quando conobbe i risultati delle analisi – valori di diossina molto più alti della norma – si sentì subito una “mamma al veleno”, prima ancora che i giornali definissero così lei e le altre due donne che si erano sottoposte al test. “La presi male, molto male, e istintivamente smisi di allattare Loris al secondo mese di vita”, dice Rosalinda. Poi, la rabbia. Ogni giorno davanti al computer a vedere filmati, a leggere articoli, a consultare studi sui veleni di Taranto e persino su quelli del Giappone. A confrontare i parchi minerali e l’acciaieria di qui con quelli che hanno lì, dall’altra parte del globo. A entrare e a uscire da Facebook, per tenersi in contatto con gli amici del gruppo “Ci svegliamo la mattina respirando la diossina”. (…) Rosalinda non fa mangiare ai suoi bambini i latticini e un sacco di altre cose in cui è più facile che si accumuli la diossina. E per la carne, chiede al papà di portargliela, tutte le volte che il papà va in Calabria. Sembrano quasi i rifornimenti clandestini di viveri nella striscia di Gaza, ma così è, chi vuol sopravvivere qui deve farlo come se fosse in guerra.

TABAGISTA A 11 ANNI
Silvio aveva undici anni quando gli diagnosticarono un tumore da fumo. Fu a marzo del 2007. Ovviamente, Silvio non aveva mai fumato una sigaretta in vita sua. Ma era già conciato come un fumatore incallito. Un caso simile, Patrizio Mazza, primario di ematologia all’ospedale “Moscati” di Taranto, non lo aveva mai visto. E nemmeno la letteratura medica internazionale lo contempla. Anche a cercare su Internet, la risposta è negativa: “No items found”. Per questo, Mazza temeva di avere sbagliato diagnosi. Invece no. Quel bambino aveva proprio un cancro da fumatore: adenocarcinoma del rinofaringe. Come tanti altri tarantini. E Silvio non proveniva nemmeno dal quartiere Tamburi, il più a rischio, dove, dice Mazza, “io non ci costruirei nemmeno le scuole”, ma da una zona molto più lontana dall’Ilva. “In dieci anni – dice Mazza – leucemie, mielomi e linfomi sono aumentati del trenta per cento. Per colpa di tutti gli inquinanti e anche per colpa della diossina, che danneggia il Dna. Un caso come quello di Silvio è da considerare come un codice rosso ed è sicuramente collegato alla presenza di diossina. Se nei genitori c’è un danno genotossico non è in loro che quel danno emerge, ma nei figli”. La diossina, spiega il dottor Mazza, è un “danneggiatore” del Dna. E le cellule germinali danneggiate possono trasmettere il tumore alla progenie, per esempio inviando al Dna del nascituro il “messaggio” di ammalarsi prima di tumore. Esistono test genotossici che lo dimostrano. Mazza è di Reggio Emilia e fa il medico a Taranto come fosse in trincea. Sa che la salute di un’intera popolazione è in pericolo, e il suo sangue romagnolo ribolle di fronte alla mollezza sibaritica della Taranto magnogreca, che a volte disconosce il problema, a volte ci convive con stolto fatalismo, altre volte si lascia sprofondare nella disperazione muta, vissuta nel recinto delle quattro mura di casa propria. (…) Nel suo ambulatorio è una processione. Due o tre casi di leucemia alla settimana. Tutte le settimane. Tutte leucemie acute. Anche la ragazza di diciannove anni che usciva piangendo dallo studio di Mazza, quando sono andato a incontrarlo per la prima volta nell’ospedale “Moscati”, aveva la leucemia. Era al quinto mese di gravidanza. I casi sono sempre più vari e numerosi, l’età dei pazienti sempre più bassa. Con un diagramma Mazza fa vedere come a Taranto, per i principali tumori ematologici, si sia passati dall’età media di 64 anni nel periodo 1998-2001 ai 61 anni del periodo 2002-2005, fino a crollare a 55 anni nel biennio 2006-2007.
Il numero globale di tumori ematologici registrati da Mazza fino alla fine del 2008 è di 964 casi. Con una incidenza sulla popolazione – qualora la medesima non subisca variazioni nel tempo – di 480 casi su centomila abitanti. Il dato più alto è naturalmente quello del quartiere Tamburi.(…) Quando visitò Silvio, Patrizio Mazza pensò proprio a un linfoma. Poi esaminò le cellule e credette di aver sbagliato tutto. Alla fine, dovette convincere se stesso che quel bambino aveva un adenocarcinoma.(…)

VADA VIA L’ILVA

Di Silvio si accorge suo padre Franco Gissi,unasera in pizzeria. E’ il 26 febbraio 2007. Sul lato sinistro del collo di Silvio, il papà nota uno strano rigonfiamento. Lo tocca lievemente, non gli piace, porta suo figlio dal dottore. (…) Il 30 marzo 2007, la diagnosi che lascia tutti increduli: adenocarcinoma del rinofaringe. (…) Cominciano i cicli combinati, tre, di chemioterapia. Fino a giugno. Poi, la radioterapia, associata ad altri sette cicli di chemio. La radioterepia Silvio la fa a Parma, perché a Taranto l’apparecchiatura c’è, ed è anche all’avanguardia, ma non ci sono i medici e il personale per farla funzionare. Radioterapia a Parma significa anche fare il pendolare fino a Reggio Emilia, dove Silvio si sottopone alla chemio. In tutto, Silvio e i suoi stanno fuori casa quattro mesi.(…)

A Silvio, i genitori hanno sempre detto che aveva soltanto un linfonodo. Ma lui pian piano ha capito. Un giorno, in ospedale, con la bocca e la gola che gli bruciavano e gli impedivano persino di parlare e di deglutire, ha detto: “Mamma, io voglio lottare. Non mi voglio abbattere. Devo essere più forte”. Franco e Rosanna Gissi, da quando hanno realizzato qual è stata la fonte della malattia del figlio, dicono di sentirsi in colpa. “Sì, perché fino a quel momento siamo stati degli ignoranti. Cittadini di Taranto che ignoravano, letteralmente, i gravissimi problemi di inquinamento della propria città e che non facevano nulla per informarsi, per capire”.

E’ anche vero però che l’informazione su queste cose è sempre stata una merce rara da trovare. Non solo per colpa di rilevazioni mai fatte o fatte male, o dei dati sempre nascosti, ma anche per il maledetto coro della GPI, la Grande e Piccola Informazione, che salvo qualche eccezione, immediatamente isolata come un virus, alla gente non ha mai veramente detto e spiegato nulla. Per tante ragioni. Perché la GPI si compra e si vende, perché le ragioni inconfessabili della politica consigliano sempre che “non è questo il momento”,perché il ricatto della perdita delposto di lavoro spaventa come la minaccia di un atto terroristico. O per tutte queste cose insieme. Va a finire che un’intera comunità vive i suoi drammi collettivi come altrettante disgrazie individuali, stordita dalla tv, ingannata dai giornali e speranzosa soltanto in un colpo di fortuna alla lotteria o in un quarto d’ora di celebrità in televisione. Ecco, forse non dappertutto è proprio così, ma di sicuro a Taranto è così. Spiace dirlo, ma a Taranto sembrano essere rimaste soltanto due speranze: essere baciati dalla fortuna di una lotteria, non doversi misurare con la roulette russa della malattia.

Un’altra conferma, se ce ne fosse bisogno, viene proprio dalla vicenda di Silvio. Superata la fase più delicata, ai suoi genitori qualche tv ha chiesto di raccontare la propria storia. Rosanna e Franco hanno accettato e subito dopo sono stati subissati di telefonate e fermati per strada anche da chi non li conosceva. Ma non per solidarietà. No. Li hanno rimproverati. “Va bene, siete stati duramente colpiti. Ma se qui chiudono l’Ilva noi come mangiamo?”. “Per andare in tv vi hanno pagato, vero?”. “Di sicuro non vi hanno dato meno di duemila euro”. “Tu, Rosanna, hai fatto la tintura ai capelli?”. “E a te, Franco, ti hanno truccato?”. A Franco sono cadute le braccia. Ma Rosanna un giorno è scoppiata a piangere e ha reagito con rabbia. Gliel’ha urlato in faccia: “A questo siete ridotti! Se ho parlato in pubblico di mio figlio l’ho fatto per me, per buttar fuori il mio dolore, ma l’ho fatto anche per voi e i vostri figli. Svegliatevi. Non sono andata al Grande Fratello, capito?”.

Oggi si può dire che Silvio sta bene. Ha tredici anni, frequenta la terza media, gioca a calcio con gli amici. Ma deve sottoporsi a frequenti controlli periodici. Appuntamenti che gli creano tensione già dalla settimana prima. E allora, per farcela, chiede con discrezione a sua madre se in quei giorni può dormire con lei. Oppure prega. In camera sua, in ginocchio, con il Vangelo tra le mani. Come lo ha trovato un giorno sua madre, aprendo la porta senza bussare. Superati i controlli, Silvio si trasforma in un ragazzino dalla vitalità incontenibile. I suoi insegnanti dicono che sembra voler riempire le sue giornate del doppio delle cose che un ragazzo della sua età fa normalmente. E lui stesso lo rivendica: “Io devo fare tutto ciò che mi sento di fare. Dopo quello che ho passato, devo fare tutto”. (…)

Le cose a Taranto non sono cambiate e chissà se cambieranno in tempi ragionevoli. Ma Rosanna e Franco non accettano l’idea che l’unica via d’uscita sia quella di andarsene. I figli, magari, appena diventano più grandi. Ma loro no. “Perché dovremmo andar via noi? Vada via l’Ilva. E se non si riesce a migliorarne gli impianti, visto che sono vecchi e superati, la si demolisca. Non è una soluzione semplicistica, è l’unica scelta logica e onesta”.

Sono sempre di più quelli che ragionano così. Anche se sanno che questa sarà la causa della prossima guerra di Taranto. Un’altra guerra tra poveri. “Ci metteranno gli uni contro gli altri – dice Franco Gissi -. Quelli che hanno perso il lavoro contro quelli che hanno perso la salute, o una persona cara. Non dobbiamo permetterglielo”. Mentre parliamo, il 10 marzo 2009, l’Ilva mette in cassa integrazione cinquecento persone. E minaccia di farle diventare cinquemila. Matematico.

http://referendumilva.wordpress.com/2009/11/03/toxic-taranto-la-citta-partorisce-diossina-di-carlo-vulpio/

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