La mostra, che sarà aperta fino a sabato 9 gennaio (dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00) è, in realtà, un pretesto e un’anticipazione della proposta di candidatura delle Tarantelle del Gargano come Bene Demoetnoantropologico Immateriale, Patrimonio dell’Umanità. L’intreccio, infatti, tra la cultura del passato materiale e immateriale, strettamente legata al territorio, quale è ad esempio la tarantella, caratterizza l’identità della Capitanata e la base minima del concetto di Bene Culturale in Italia. Sbaglia chi pensa che la tarantella sia appannaggio esclusivo della punta estrema del tacco italiano: i balli popolari, strettamente legati al fenomeno del tarantismo, affondano le loro radici in un passato lontano, perso nella notte dei tempi, su un vassoio geografico molto più esteso di quanto si possa pensare.

Il fenomeno del tarantismo, infatti, non è solo salentino ma nei tempi antichi era attribuito anche alle terre di Capitanata e, in particolare, al territorio di Lucera. Ma facciamo un passo indietro. Come è noto, secondo la credenza popolare il tarantismo era una malattia provocata dal morso della tarantola (lycosa tarentula), che si manifestava soprattutto nei mesi estivi (periodo della mietitura) e che provocava uno stato di malessere generale (dolori addominali, stato di catalessi, sudorazioni, palpitazioni) in cui musica, danza e colori rappresentavano gli elementi fondamentali della terapia che consisteva, appunto, in un esorcismo musicale, coreutico e cromatico. In realtà, il morso del ragno era innocuo per l’uomo e il tarantismo era più che altro un fenomeno psicosomatico, in cui il pizzico era un pretesto per risolvere traumi, frustrazioni, conflitti familiari e vicende personali: un amore infelice, la perdita di una persona cara, le crisi legate alla pubertà e condizioni socio-economiche difficili. Si tratta, dunque, di un fenomeno storico-religioso nato nel Medioevo e che si è protratto fino al Settecento e oltre, caratterizzato dal simbolismo della taranta che morde e avvelena, e della musica, della danza e dei colori che liberano da questo morso avvelenato. Lo studio del tarantismo nel Settecento coinvolse scienziati e intellettuali italiani e stranieri, laici e religiosi, esponenti di scuole scientifiche fra loro diverse e opposte. Il ballo era utilizzato come rimedio medico: il movimento convulso, accelerando il battito cardiaco, avrebbe dovuto favorire l’eliminazione del veleno e contribuire ad alleviare il dolore provocato dal morso del ragno e di insetti simili. Successivamente, furono aggiunti connotati religiosi ed esoterici.

Il tarantismo ha generato una forma musicale e un ballo detto pizzica o tarantella perdendo, in questa veste, il legame con la religione e la superstizione, e vivendo di vita propria. Il fenomeno del tarantismo nel Salento è legato alla figura di San Paolo, santo protettore delle tarante, capace di guarire coloro che sono stati pizzicati da un animale velenoso per effetto della sua grazia. Una tradizione vuole che il santo sia sopravvissuto al veleno di un serpente nell’isola di Malta.
Durante la trance le donne tarantate esibivano dei comportamenti di natura oscena, mimando rapporti sessuali oppure orinando sugli altari. Per questi motivi la chiesa di San Paolo di Galatina (in provincia di Lecce), dove i tarantati venivano condotti a bere l’acqua sacra del pozzo della cappella, venne sconsacrata e San Paolo da santo protettore degli avvelenati cominciò ad essere ricordato come il santo della sessualità.

{affiliatetextads 1,,_plugin}Ma... nascono le Tarantole non solamente nelle Provincie di Bari, Lecce ed Otranto, ma anche in quella di Capitanata, come ricorda lo studioso Domenico Sangineto alla fine del Seicento. Infatti, già alla fine del Cinquecento, un vescovo di Manfredonia, Niccolò Perrotti, nel libro Cornucopia, porta la prima testimonianza della musicoterapia applicata al morso del ragno. Qualche decennio dopo, in un’opera del 1603, l’Iconologia di Cesare Ripa, la Puglia, Capitanata compresa, viene raffigurata come una fanciulla con la veste brulicante di ragni con ai piedi gli strumenti musicali (tamburello, piffero, viola, tamburo) utilizzati per la “guarigione”. Due secoli più tardi, Ludovico Valletta scrive De Phalangio Apulo, in cui viene esaminato il fenomeno del tarantismo anche nella nostra terra e vengono esaminati otto casi clinici verificatisi a Lucera. Tuttavia, già fra XVI e XVII secolo il fenomeno del tarantismo si affievolisce in Capitanata perché non trova un alveo rituale e una giustificazione cristiana, come nel Salento con la figura di San Paolo. Infatti, negli Antidota Tarantulae, raffigurazioni del ragno corredate di mappe geografiche, il fenomeno è limitato al territorio di Gravina-Bitonto-Bari fino a Otranto e Leuca. Tuttavia, Lucera rimase il centro di documentazione principale sul fenomeno del tarantismo in Capitanata.

Alessandra de Stefano - www.foggiacomunicazione.it